Non esiste stato di
ansia o depressione cronica che non sia dovuta al “chissà cosa penseranno gli
altri”. Per la maggior parte di noi non si tratta, naturalmente, di una situazione
di cui ci rendiamo conto. Questa preoccupazione per il giudizio degli altri ci
è stata talmente tanto inculcata sin dalla nostra più tenera età – non solo dai
nostri genitori, ma dall’intero sistema sociale – da essere diventata un
automatismo psicologico inconscio.
Avete
presente quel continuo ronzio di pensieri che non smette mai di accompagnarci
per tutto il giorno? Ascoltateli per un momento con attenzione e vi accorgerete
che quasi tutti questi pensieri sono preoccupazioni per non apparire agli occhi degli altri
come degli “sfigati”. E questo perché siamo noi a giudicare costantemente gli
altri. Se passiamo il tempo a giudicare gli altri, alla fine crederemo che
anche gli altri passeranno le loro giornate a giudicare noi. E così la nostra
mente, preoccupata del fatto che potremmo non essere accettati nella società,
si attiva sempre più per trovare soluzioni a questo problema. Alla fine, visto
che noi viviamo costantemente circondati da altre persone, la nostra mente
diventerà una presenza costante, portando con essa un continuo stato di paura.
Non solo. A lungo andare, dato che questo stato mentale è l’unica cosa che
sentiamo costantemente presente in noi, finiamo con l’identificarci con esso.
Ci convinciamo di essere quel continuo ronzio di pensieri che non smettono mai di
frullare nella nostra testa, dalla mattina appena ci svegliamo fino al momento
in cui ci addormentiamo. Ma non è così. Tu
non sei quel continuo ronzio nella tua testa.
Riflettici
un attimo. Quando avevi tre mesi di età, in te era presente questo famoso “ronzio
mentale”? Naturalmente no. E quando avevi cinque anni? E quando ne avevi dieci?
Ovviamente la risposta è anche in questo caso no. Però ricordi che era presente
a sedici anni. Ma era lo stesso di quello che hai oggi? Molto probabilmente no.
Allora quello di oggi è uguale a quello che avevi a vent’anni? Quasi certamente
anche in questo caso la risposta è no, visto che è molto probabile che il “ronzio”
di oggi non ha niente a che fare nemmeno con quello di ieri. Ergo, delle due l’una: o tu non sei quell’essere
che ha vissuto tutte quelle età, oppure non sei quel “ronzio”, non sei la tua
mente. Ma se non sei la tua mente, allora non sei nemmeno niente di ciò con cui
la tua mente si identifica di volta in volta: non sei un dottore, non sei un
impiegato, non sei un operaio, non sei un avvocato, non sei un dipendente, non sei un professore, non sei un automobilista, non sei un capo, non sei uno pieno di soldi, non
sei un poveraccio, non sei il
presidente, non sei uno sportivo, non sei un fumatore… Queste sono tutte
cose che fai, ma non sono ciò che
sei. Ovviamente è assolutamente normale fare queste e altre cose. Il problema
sorge quando ti identifichi con esse.
Se
mi identifico come “impiegato” allora tutto il resto della mia vita e tutte le
mie azioni e pensieri ruoteranno intorno a questa immagine; e così sentirò
sempre che mi manca qualcosa, provando una costante infelicità. Ecco perché
quando poi cerchiamo di “staccare” facendo qualcosa di completamente diverso da
quello che siamo abituati, quella felicità per il nuovo dura giusto un istante:
poi ripiombiamo nella nostra infelicità. Abbiamo soltanto levato una maschera
per indossarne un’altra, continuando a lasciare fuori chi siamo veramente. Gli
antichi, come sempre, erano già a conoscenza di tutto ciò; non a caso
chiamavano gli individui persone. “Persona”,
infatti, è una parola latina che significa “maschera teatrale”. In pratica gli
antichi erano perfettamente a conoscenza del fatto che la maggior parte della
gente non è mai se stessa, ma piuttosto attori che recitano una parte
indossando una maschera. Ora, fino a quando un attore è perfettamente cosciente
del fatto che sta recitando soltanto una parte va tutto bene, ma se questo
stesso attore si convince di essere
veramente la parte che sta recitando e che addirittura la maschera che indossa
è la sua vera faccia, secondo te quanto ci metterebbe a finire in un ospedale
psichiatrico? Eppure è esattamente quello che fa la maggior parte di noi. L’unica
differenza consiste nel fatto che, essendo una cosa che fanno tutti, ci siamo
convinti che sia perfettamente normale. Ma non lo è. Ecco perché non siamo mai
contenti, non siamo mai felici, non siamo mai in pace con noi stessi.
Ma
se non siamo quello che facciamo, se non siamo quello che la nostra mente ci
dice di essere, allora chi siamo veramente? Per poterlo capire esiste solo un
modo: mettere a tacere la mente smettendo di giudicare tutto e tutti e
iniziando a vivere il momento presente. È una cosa che all’inizio risulta
difficilissimo fare: se ci siamo identificati per tutta la vita con i nostri
pensieri, l’idea stessa di spegnere la mente suonerà come se ci stessimo
dicendo che dobbiamo smettere di vivere. È una reazione assolutamente normale. Ma
se superiamo questo momento, allora tutto ci sarà chiaro, e capiremo
esattamente quello che, di volta in volta, dobbiamo fare senza “sbagliare”
poiché, ritrovando noi stessi, ritroveremo l’armonia con tutto l’esistente. E
saremo felici.
Avrai ritrovato te stesso
quando ti scoprirai ad amare veramente in maniera incondizionata la vita,
perché soltanto l’amore incondizionato – e
quindi, di conseguenza, la scomparsa di ogni paura – è l’effetto dell’armonia ritrovata in se stessi e con ciò che ci
circonda.
micheleputrino@email.it
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