giovedì 5 maggio 2016

L’unica cosa che conta è il Corpo

È tempo di parlare chiaro, senza ipocrisie, senza più giri di parole. Noi siamo solo e soltanto il nostro corpo. Ma se siamo solo il nostro corpo, allora che fine fanno la nostra Mente, la nostra Anima e il nostro Io? Ecco la fine che fanno: la “Mente” altro non è che il cervello in azione, l' “Anima” il nostro corpo in azione e l' “Io” semplicemente l'identificazione del nostro corpo. Punto. Prima sarà chiaro a tutti questo concetto e prima torneremo a vivere.

Vi siete mai chiesti, infatti, come mai le civiltà “più semplici” sono anche quelle in cui depressioneansie e angosce di vario tipo sono praticamente sconosciute pur vivendo nel quotidiano carestie, fame e problemi che noi non riusciamo nemmeno a immaginare? In queste civiltà “più semplici” tali “stati” non si presentano perché lì le persone si identificano con il loro corpo e, con ciò, vivono e agiscono attraverso il loro corpo. In sostanza, stiamo bene e ci sentiamo sani quando, dicendo “Io”, ci riferiamo al nostro corpo e a ciò che percepiamo attraverso i nostri cinque sensi, mentre stiamo uno schifo e la vita perde di senso quando ci identifichiamo con il nostro ruolo sociale, con il “titolo”, con un “modo d'essere”, insomma, con un concetto che niente ha a che fare con il nostro corpo. Non serve essere un premio Nobel per rendersene conto: è sufficiente osservare le persone che ci stanno intorno. Se riflettiamo poi su una delle condizioni tipiche attraverso cui i ricercatori identificano forse la più grave “malattia mentale” – e cioè la schizofrenia – allora c'è tanto su cui meditare. Scrive a proposito Umberto Galimberti nel suo libro Psichiatria e fenomenologia (§ 7. La schizofrenia e la presenza vuota, Ed. Feltrinelli): «Nella condizione schizofrenica si ha una scissione permanente tra l'Io e il corpo. L'individuo tende sempre più a identificarsi con la parte di sé che considera incorporea». Ho sempre trovato queste parole particolarmente illuminati perché se il tendere «sempre più a identificarsi con la parte di sé che considera incorporea» può portare a una condizione così terribile a cui soltanto l'intervento medico può cercare in qualche modo di porre rimedio, allora tutti noi, che viviamo in una società che ci porta sempre più a identificarci con qualcosa di alieno rispetto al nostro corpo, dobbiamo riflettere bene su ciò che conta e che è veramente importante per vivere una vita degna di essere vissuta.
È dunque giunto il tempo di rivalorizzare il nostro corpo e di tornare a identificarci con esso. Di vivere attraverso il nostro corpo. Di essere il nostro corpo. Al contrario di quanto comunemente i così detti “intellettuali” criticano, i segnali di questo “ritorno” al corpo, e quindi al vivere pienamente, ci sono tutti: oggi sempre più persone fanno attività fisica frequentando palestre, correndo nei parchi o facendo parte di squadre sportive; inoltre si presta sempre più attenzione alla cura del proprio aspetto e del modo di vestirsi. E queste, al contrario delle continue critiche mosse dagli “intellettuali”, sono cose molto positive perché ci riavvicinano sempre più al corporeo. Ma non sono sufficienti perché, senza rendercene conto, tutto il nostro modo di vedere il mondo e, quindi, tutto il nostro sistema sociale, è completamente assoggettato alla filosofia di Platone che circa duemilaquattrocento anni fa affermò non solo che il “corpo” è qualcosa di distinto dalla nostra “anima” (in greco “psyché”, ciò che noi oggi percepiamo come “mente”, “Io” o, appunto, “anima”) ma che quest'ultima è l'unica cosa che conta. Ecco allora che, da questo momento in poi, soltanto le cose “intellettuali” vengono considerate di valore e superiori a tutto ciò che, invece, appartiene al mondo “fisico” e “manuale”. Non solo. Il corpo, e quindi tutto ciò che appartiene al corporeo, deve essere denigrato in quanto “primitivo”, “materiale”, “barbarico”, “animalesco”.
La visione del mondo platonica ha talmente tanto monopolizzato il nostro attuale modo di pensare che se oggi non si fa parte o, quantomeno, non si è fatto parte del mondo accademico, si viene automaticamente considerati “gente di serie B” (è interessante notare, a tal proposito, che la parola “accademia” deriva dal greco ed è nata proprio per indicare la scuola filosofica di Platone; inoltre è bene ricordare che Platone professava che il governo di uno Stato doveva essere di esclusiva competenza dei “filosofi”, e cioè degli “accademici”). E così oggi tutti corrono a iscriversi alle “accademie” frequentandole per decenni e decenni, opprimendo il corpo e i sensi proprio nel periodo di massima potenza e fioritura, a favore di una “mente” e un “Io” del tutto concettuali. Dall'altro lato, coloro che si ritrovano a non voler o non poter frequentare le “accademie” – e che quindi optano per “lavori manuali” – si sentono inferiori e quindi infelici perché, appunto, così l'attuale dominante pensiero platonico li ha classificati. E poi ci stupiamo che la nostra società altro non è che un regno di persone depresse che non riescono a trovare nessun senso a questa vita e quindi nessuna motivazione per andare avanti.
È giunto il tempo di tornare a vivere pienamente; ma per far questo dobbiamo, per dirla con Nietzsche, diventare ciò che siamo, che significa, nei fatti, tornare a identificarci con il nostro corpo e, con esso, tornare a danzare con la vita.


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